Nella terza era industriale la “qualità totale” (“Total Quality Management” in inglese) fa ormai parte della cultura di molte imprese vincenti: un modello organizzativo volto a migliorare costantemente la qualità di ogni aspetto del lavoro e dell’organizzazione, dato che tutto conta per il risultato finale, che è fare business.
In questo senso, la ricerca di qualità – che sia secondo standard definiti o in base a quel mix psicologico di aspettative e percezioni – coinvolge di certo le Risorse Umane che, assieme al capitale economico ed all’insieme delle proprietà immobiliari e tecnologiche, è uno dei tre pilastri fondamentali di ogni impresa.
Ogni azienda, tramite i processi di ricerca e selezione, vuole dunque ottenere il “meglio” da inserire nel proprio organico, con l’idea che persone più competenti e qualificate possano portare del valore aggiunto.
Ma cosa vuol dire “migliore”? Secondo quali criteri e standard? Non può esserci un’unica risposta dato che diverse variabili vanno prese in considerazione, come la cultura di un’organizzazione, la sua storia e gli obiettivi che si prefigge, definiti nella mission e vision organizzative. Tuttavia c’è un elemento comune secondo una selezione darwiniana: il migliore non è il lavoratore più forte ma il lavoratore più adatto rispetto all’ambiente in cui si trova ad operare. Dunque, un discorso di idoneità relativa al contesto.
Eccellenti professionisti possono prosperare o essere improduttivi in aziende diverse, con regole, cultura e modi di lavorare differenti ed ecco che il processo di selezione avviene considerando sia le competenze dirette (il saper fare, il sapere tecnico) che l’insieme delle competenze trasversali, la personalità, i valori ed il background che descrive il fattore umano nel suo insieme psicologico, sociale e comportamentale.
Ricercare i lavoratori migliori significa dunque selezionarli in base alla capacità di inserirsi ed integrarsi nelle nuove organizzazioni, mediando tra i bisogni dell’organizzazione e della persona, cercando l’incastro perfetto tra la domanda ed offerta di competenze e di tratti individuali, tra aspettative reciproche e retribuzione delle competenze a livello economico e di bonus. È il così detto “fit” organizzativo.
C’è però una sostanziale differenza tra selezionare il migliore fra una rosa di candidati disponibile ed tra selezionare il migliore in assoluto sul mercato. Non è solo che i migliori professionisti sono anche più esigenti in termini di stipendio e di richieste e non è detto che ogni impresa sia in grado di attrarli: il punto cruciale è che la perfezione può essere nemica dell’efficienza ed una delle sfide, del tutto discrezionali, della ricerca e selezione è quella di saper stare in equilibrio tra questi due estremi.
Molte grandi imprese, infatti, preferiscono mantenere delle posizioni vacanti piuttosto che riempirle con professionisti inadatti, poiché chi non si integra rischia di causare danni a livello economico e di tempo (che è sempre danaro). Non tutti però possono permettersi una simile calma, specialmente nell’era della globalizzazione caratterizzata da tempi sempre più stringenti. Un conto sono però le scelte aziendali, ragionate e mediate dall’analisi dei gruppi di lavoro, un’altra è una tendenza psicologica ad operare in un senso o nell’altro ed in base alla quale è possibile distinguere le persone (e soprattutto i key decision maker nelle organizzazioni) in due macro categorie: i satisficer (chi si accontenta) ed i maximizer (chi ricerca sempre il massimo in termini assoluti).
E tu di quale categoria fai parte?
Mattia Loy – Area Ricerca e Selezione Sinapsi Group