Uno degli aspetti curiosi della ricerca e selezione riguarda la percezione che i clienti hanno dei candidati. Si tratta di un tema sottile e delicato, basato sulle percezioni soggettive della realtà che, in quanto tali, sono soggette a possibili distorsioni per via dei confronti.
Nessuna percezione, infatti, ha valore senza un contesto in cui collocarla e dunque servono sempre dei termini di paragone per un confronto.
Nel recruitment, un caso importante riguarda il raffronto tra i dipendenti che hanno lavorato a lungo in un’azienda e i liberi professionisti o i “precari”: i primi, infatti, spesso sviluppano una forte esperienza e alti livelli di competenze che però hanno difficoltà a trasmettere in fase di intervista. I secondi, invece, vuoi perché sempre alla ricerca di nuovi incarichi, vuoi perché precari “di fatto”, diventano più scaltri e smaliziati nell’offrire in intervista quel tipo di risposte che i datori di lavoro vogliono.
Ogni azione che compiamo nella vita, inclusa la scrittura di questo articolo, è frutto di competenze perfezionate con la pratica e il colloquio di lavoro non fa eccezione: ecco perché a volte i candidati con il CV più forte appaiono quasi goffi e impacciati alle interviste. Persone con una lunga esperienza alle spalle spesso non riescono a fornire risposte precise e chiare perché non sono abituate a riassumere in modo efficace in 3 minuti oltre 10 anni di carriera e di successi.
Per contro, i liberi professionisti, i precari e in particolare i disoccupati sono più esperti. Generalmente più liberi da impegni, hanno una maggior disponibilità a presentarsi di persona ai colloqui di lavoro rispetto a un dipendente, che è appunto vincolato dagli orari di ufficio. Sempre per l’abbondanza di tempo, i non-dipendenti hanno molte più opportunità di candidarsi a nuove offerte di lavoro.
Allora, perché certe aziende preferiscono i candidati occupati, nonostante spesso siano più “goffi” nelle interviste e abbiano bisogno di un tempo di preavviso a volte anche molto lungo?
Si tratta di un vero e proprio pregiudizio: si suppone, infatti, che una persona che già lavora disponga automaticamente di maggiori competenze, esperienze, capacità, aggiornamento professionale e valore aggiunto in relazioni professionali. Per contro un disoccupato, specialmente se inattivo da un lungo periodo, potrebbe aver perso tutto questo bagaglio. Magari ha svolto lavori in nero che non dichiara o si è tenuto aggiornando tramite studio e rapporti con altri professionisti, ma tutto questo passa in secondo piano.
Inoltre, fatto ancor più importante, molti sono portati a pensare: “Se questo candidato è disoccupato, è perché nessun’altra azienda lo vuole e deve esserci un motivo: magari non è bravo come sembra, deve aver fatto disastri o è un disonesto, o peggio.”
Davanti a questi temi, dunque, è importante ricollegarsi all’analisi dei bisogni aziendali che ha comportato la necessità di inserire una nuova figura professionale (o un suo rimpiazzo) e valutare solo le persone in base alle loro competenze effettive, idoneità al ruolo e potenziale presso l’azienda che li assume.
Mattia Loy – Area Ricerca e Selezione Sinapsi Group